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Conclusioni

Man mano che la conversazione si evolveva, mentre apprendevamo elementi interessanti sul funzionamento di questo progetto, mi veniva naturale riflettere sulla capacità degli interventi di cooperazione di capire la propria funzione rispetto a certe forme participative dello sviluppo. Non potevo non constatare le carenze di sostegno che il progetto appena concluso aveva offerto ai suoi interlocutori, proprio nel momento in cui i coltivatori stavano affrontando queste nuove sfide. Il ritardo nella creazione dell’associazione non aveva scuse. Ma ancor di più, mentre tanto sforzo era stato messo negli aspetti tecnici di riparazione delle dighe e dei canali, l’aspetto sociale ed organizzativo del funzionamento dell’associazione era stato lasciato alla buona volontà dei soci membri. Tutto sommato, era andata bene. Ma se il presidente dell’associazione fosse stato meno abile, o se i soci fossero stati più litigiosi e meno solidali, facilmente l’intervento si sarebbe tradotto in un fallimento. La dipendenza del successo da questi fattori umani ed organizzativi era enorme, e c’è da chiedersi come mai gli enti di cooperazione siano così superficiali nel tenerne conto: non c’è da meravigliarsi, perciò, se ci siano così tanti fallimenti in giro.

Inolltre, la condizione dei finanziamenti della cooperazione allo sviluppo, spesso collegata a cicli finanziari di breve durata, non oltre i due o tre anni, condanna i progetti di assistenza esterna ad interventi di breve durata, con interruzioni artificiose di alcune operazioni che dovrebbero avere durata ben più prolungata. Di certo, il progetto aveva trattato la creazione dell’associazione con una superficialità incredibile, avviandola all’ultimo momento, offrendo un’assistenza soltanto al suo avviamento ma non al suo funzionamento. Molti dei problemi discussi nella riunione, circa le problematiche legate agli approvvigionamenti di sementi e di fertilizzanti, le difficoltà di accesso ai mercati di sbocco della produzione o accesso a mulini per il trattamento del riso, o quelle collegate alle tecniche agricole utilizzate e alla produttività dei terreni, erano state o ignorate o appena accennate nel corso dell’attività formativa offerta dal progetto, legata solo alle operazioni di manutenzione dei canali d’irrigazione. Ignorata era stata tutta una serie di altre tematiche di loro interesse: lo sfruttamento da parte degli usurai locali, la mancanza di capitale di funzionamento per finanziare il ciclo produttivo, e l’inesistenza di credito rurale. Queste erano solo alcune delle tematiche che erano centrali per gli agricoltori cambogiani, ma di questo il progetto non si era occupato. È vero che ogni progetto ha una sua specializzazione tecnica legata alla sua specificità, in questo caso legata all’irrigazione, ma questa frammentazione tematica non poteva che essere portatrice d’inefficienze, e i coltivatori non potevano essere lasciati soli a risolverli.

Non dovremmo affrontare il funzionamento degli aspetti associativi dei progetti di cooperazione in un modo diverso? Perché non chiediamo ai beneficiari dei nostri interventi quali siano i loro problemi prima che il progetto sia definito in tutte le sue componenti? Sembra una domanda banale, ma quante volte i progetti sono redatti da tecnici specialisti che ignorano queste dimensioni umane?

E per quale motivo il progetto appena terminato in Cambogia non aveva avviato la creazione dell’associazione degli utilizzatori di acqua sin dalla prima fase della sua esecuzione? Dopo tutto, la sosteniblità e la durabilità di un intervento di sviluppo di questo genere dipendono proprio dalla partecipazione locale, da cui dipende l’esito finale dell’iniziativa. Ma come farlo capire ai capi progetto, alla sede della FAO, al rappresentante FAO a Phnom Pehn, al ministero dell’irrigazione e alla sua direzione provinciale? Ma a quel punto c’è anche da chiedersi se la partecipazione locale veramente rientri nelle priorità di queste entità. Avendo cominciato tardi l’addestramento alle tecniche di irrigazione e di manutenzione degli impianti idrici, la participazione delle maestranze locali al buon funzionamento del progetto non può essere stata che affrettata. Inoltre, aspettarsi che un’associazione maturi in pochi mesi un senso dei valori comuni, un’autodisciplina e una capacità collettiva che dia valore al lavoro congiunto, è a dir poco azzardato. È come sperare nella fortuna: costituisci un’associazione sulla carta, fai qualche riunione, un ciclo rapido di corsi informativi, e …che Dio te la mandi buona. Non c’è da sorprendersi se tanti progetti di cooperazione vadano a finire nel nulla. Se conducessimo i nostri impegni personali con lo stesso approccio, la nostra vita sarebbe un disastro.

Ma altre preoccupazioni mi si accavallavano nella mente. Chi aveva veramente scelto il presidente dell’associazione? Quali erano i veri rapporti tra i soci, al di là di quanto avevamo potuto capire nell’incontro? Come si fa ad aiutare dall’esterno la partecipazione senza essere uno dei membri del gruppo? Quale responsabiità hanno le autorità locali nel favorire o nell’impedire il funzionamento di queste forme participative di gestione dello sviluppo? Che dialogo esiste tra la base sociale e le autorità pubbliche a livello locale, provinciale e nazionale?

Queste domande e tante altre che potevano essere poste, valevano lì in quella realtà ma anche qui da noi in circostanze analoghe ma anche diverse. La partecipazione alla gestione dello sviluppo è determinante affinché lo sviluppo avvenga. Ne è una condizione necessaria. Tuttavia, la partecipazione non è facile da aquisire, e anche quando si realizzi, non necessariamente produce gli effetti voluti: i gruppi hanno dinamiche interne difficili da prevedere. I rapporti reciproci tra i singoli membri richiedono la costante verifica di equilibri decisionali e di comportamenti, in cui semplicismi come l’applicazione automatica della regola maggioritaria o l’uso di un sistema di gestione basato sull’unanimità obbligoria, possono essere solo espedienti che ignorano complessità ben più profonde, ove il rispetto della dignità individuale deve poter convivere con il perseguimento di finalità di bene comune, come il sostegno ai più deboli, per esempio. Non tutti i meccanismi partecipativi riescono ad essere compatibili con queste tre dimensioni (dignità individuali, bene comune, sostegno ai più deboli) in modo soddisfacente. Essere consapevoli di questa sfida, però, è già un passo in avanti.

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Orlando Sposi

 

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