IVANA NOMADE DIGITALE

Fra il Dentro e il Fuori. E la scoperta del Cerchio.

Incursione di Gisella Evangelisti nella biografia di Ivana Pinna

Se il buon giorno si vede dal mattino, qualche flash recuperato dalle vaghezze della mia infanzia vi dará un’idea delle precoci lotte di una bimba contro i limiti e confini del suo mondo. Eccomi a un anno alzandomi dal lettino di notte, per andare in bagno, da sola al buio. Eccomi imprigionata con altri due fratelli piú piccoli dentro un box di 1 metro e mezzo quadrato, una specie di recinto utilizzato da mia madre nel tentativo di tenerci per un po’ zitti e buoni. Ma ecco un piede (il mio) che martella a calci il portoncino di casa, per inseguire lá fuori mia madre, e si ferma solo quando vi appare un grosso buco.

Il Dentro, il Fuori, due dimensioni in eterna lotta, nel mio piccolo mondo sardo.
Il Dentro era racchiuso in un cortile, difeso da un grande cancello in ferro, perché i bambini non uscissero nella strada e si affacciassero ad un muretto alto appena 70 centimetri, al di là del quale si estendeva un orizzonte immenso, ed un precipizio di 10 metri. E proprio per scoraggiare i più piccoli dal rischio di cadere giù, gli adulti ci parlavano di una pericolosa “Mamma 'e Sa Corona”, che rapiva chiunque si sporgesse troppo Fuori. Per anni mi sono chiesta come fosse questa “Mamma 'e Sa Corona”, e quanti figli avesse!

Oltre il vicolo de “Sa Corona Manna”, dietro la curva, il Fuori si apriva in altri splendidi orizzonti. Ma per andare oltre dovevo attraversare il mare. Mi fu chiaro quando lo vidi per la prima volta, nella sua enorme distesa azzurra di acqua cristallina, che ti invitava a immergerti. Capii che vivevo in un’isola. Bellissima, ma dai confini che sentivo troppo stretti. Li sfidavo in lunghi giri in bici per il paese, poi esplorando i dintorni con la macchina di mio padre, presa di nascosto, prima ancora di avere la patente, ma che sapore di libertá! E indipendenza.
Ovviamente, dopo le medie mi iscrissi al Liceo Scientifico Sperimentatale Linguistico, per imparare le lingue e affacciarmi, lá Fuori, a quel mondo che mi aspettava. Mia madre non aveva potuto mai varcare i confini della Sardegna, ma mi appoggiava nel mio voler viaggiare: lo facevo anche per lei.

Finito il liceo mi sarei voluta iscrivere ad Architettura o intraprendere un percorso nell’arte, ma decisi di andare a lavorare per essere indipendente, accantonando al momento l’universitá. Ricordo quando lasciai la Sardegna. Mentre mio padre mi accompagnava in macchina all'aeroporto, il mio sguardo si perdeva su quell'orizzonte a 360 grandi. Salutai la mia terra, le campagne, le pietre, gli alberi, il mare, con gli occhi lucidi.
Sentivo che dovevo sfuggire a un luogo in cui ognuno conosce già il proprio destino e quale ruolo assolvere, in un copione giá scritto. Partii per il Trentino, in un impiego che mi impegnava full-time dalle 12 alle 14 ore al giorno, 7 giorni su 7. Niente uscite, niente svaghi. Dovevo resistere a quel ritmo militare, perché l'obiettivo era risparmiare, e poi investire su di me. Ma alla terza stagione, prendendo il bus che da Trento mi avrebbe portato a Pozza di Fassa, fui assalita dalla disperazione guardando quelle montagne altissime, che nascondevano l'orizzonte. Io avevo bisogno della vastitá degli orizzonti, e capii che il mio futuro era altrove.
Il settembre successivo mi iscrissi a Scienze Politiche. Il primo anno lo pagai tutto da sola, investendo su di me, perché mio padre disse “non sei voluta andare all'università quando volevo io, adesso ti arrangi”. E così fu. Ringrazio mio padre, nonostante il rapporto conflittuale di quegli anni, per avermi insegnato a camminare con le mie gambe.
Finita l'università avevo di fronte a me due opzioni: o lavorare all'interno delle Istituzioni Europee, o nel settore delle nuove tecnologie dell'informazione, attraverso Internet, uno strumento che utilizzavo già dal 2000 e che mi appassionava incredibilmente. Entrambi i percorsi mi pareva contribuissero attivamente allo sviluppo delle relazione fra nazioni e popoli.
Dopo l'esperienza a Bruxelles, presso un'organizzazione che lavorava a contatto con le istituzioni Europee, e poi a Strasburgo, presso il Consiglio d'Europa, capii peró che quel mondo così strutturato e rigido non faceva per me. Quindi optai per specializzarmi in nuove tecniche informatiche, come SEO (Search Engine Optimization) e SEM (Search Engine Marketing), e partii per la Germania. Quindici anni fa si trattava di “lavori del futuro”, che pochissimi conoscevano. Si passavano ore su grafici, dati, numeri, statistiche ed analisi di una lista infinita di parole che gli utenti cercavano su Google. Per chi vuole saperne di piú, lo specialista SEO e SEM aiuta chi vuole aumentare la visibilitá del proprio sito internet sui motori di ricerca, come Google o Bing, etc.

Il SEO utilizza come strategia l’inserimento di specifiche parole chiave all’interno del sito internet per migliorarne il posizionamento organico.. Beh, mi fermo qui, é solo per darvi un’idea. Il punto più ostico non é mai stato il lavoro in sé, quanto cercare di spiegare agli altri cosa facessi! Per semplificare e tagliare corto, dicevo che il mio lavoro consisteva nell’ “analizzare e comprare parole chiave”. Ai miei genitori, ancor piú brevemente dicevo che “lavoravo al computer”, uno strumento per loro del futuro, che peró nel giro di 15 anni è stato soppiantato dal cellulare!
Strano ma vero, nella “rigida” Germania, io, la ex bimba ribelle, mi sono sentita a casa. Respiravo in quella societá un forte senso di responsabilità individuale, che contribuiva al buon funzionamento del sistema sociale. Ogni societá ha bisogno di regole. Me lo ricordó Martin, il mio fidanzato tedesco di allora, che quando mi vide passare col semaforo rosso, come facevo sempre, mi disse:“Nein, du gehst jetzt nicht!” - “No, stavolta non passi”. Non stai dando il buon esempio a quei bambini, vedi?”. Come dargli torto?
Cominciai ad osservare con piú attenzione l’ambiente che mi circondava, adattandomi e “modellandomi” a questa realtà di responsabilità collettiva. Fin a che un giorno non “incontrai” Tiziano Terzani con un primo libro, “Un indovino mi disse”, seguito da altri, che mi affascinarono per la sua passione per i popoli diversi, soprattutto asiatici, che portava a profonde riflessioni sull’essere umano. Eccomi quindi a inviare il mio curriculum in Cina per fare un'esperienza in questo grande paese, pur avendo un lavoro a tempo indeterminato in un'azienda tedesca.
La Camera di Commercio Svizzera a Pechino mi propose un tirocinio gratuito di 6 mesi. Senza pensarci due volte mi licenziai ed organizzai la partenza. Martin mi accompagnò in un viaggio di 3 settimane alla scoperta della Cina, per poi separarci a Shanghai: da lí lui sarebbe tornato in Germania, mentre io proseguivo per Pechino.
Conoscere la Cina fu come essere presa a sberle: uno shock culturale non da dirsi, sia per la lingua, decisamente incomprensibile, sia per l'incredibile ammasso di umanità nelle strade, che si muoveva in forma spesso caotica. Mi infastidivano le persone che non rispettavano la fila e si accatastavano e sgomitavano le une con le altre per salire sui bus o nella metro. Un mondo assolutamente in contrasto con l'ordine, la compostezza e la disciplina che avevo vissuto in Germania. Accidenti! Mi resi conto di aver ormai acquisito una mentalità tedesca, che peró coesisteva con l’atteggiamento tanto italiano di criticare tutto quanto non é buono e bello “come da noi”.
Insomma, a volte agivo come una specie di Principessa del Pisello, o Miss schizzinosa, soprattutto nelle prime settimane di viaggio con Martin, e nei ristoranti. Se le condizioni igieniche non rispettavano gli standard da me richiesti, o se le presentavano cibi strani, “Miss schizzinosa” organizzava un vero e proprio rituale. Prima “igienizzava” piatti, bicchieri e bacchette cinesi, poi passava a una attenta degustazione: se il cibo riceveva il beneplacito della vista, procedeva ad un piccolissimo assaggio a labbra strette, e solo dopo l'approvazione del palato, consumavo il pasto. Insomma non fu facile, in quelle tre settimane, trovare qualcosa di mio gradimento, in compenso se qualcosa mi piaceva, me lo sbafavo senza rimorsi, non sapendo come sarebbe andata il giorno dopo.
Ma fu l’esperienza in un monastero buddhista zen, che feci dopo il tirocinio, a dar la spallata finale alle mie certezze di “Kommander”che mi portavo dalla Germania, e alla “Miss schizzinosa” che giá vacillava chiedendosi: “Guarda un po' quanti sono 'sti cinesi, e cosa mangiano: se sopravvivono loro, perchè non io?”.
Il monastero si trovava in un villaggio sperduto nel cuore dell’immensa Cina, dove arrivai con un biglietto scritto in mandarino dal mio insegnante di Qi Gong a Pechino. Era il tempio di Bailin, nella contea di Zhaoxian, provincia di Hebei. Quando mi presentai, unica ospite straniera, mi dissero che potevo restare quanto volevo.

La sveglia era alle 4 del mattino, seguita da meditazione e camminata nella sala centrale del tempio, e poi colazione tutti insieme in un enorme refettorio, in cui gli uomini sedevano da una parte e le donne dall'altra. Non si incrociavano le gambe, non si parlava e si doveva mangiare tutto quello che veniva servito nelle due ciotole di fronte. Se inavvertitamente il cibo cadeva per terra, bisognava raccoglierlo e consumarlo. Alla fine di ogni pasto le scodelle venivano riempite con un po' d'acqua calda per poi bere tutto ciò che era contenuto al suo interno.
C’erano 3 pasti al giorno, due sessioni di meditazione e camminata, e poi tutti a letto alle 21. Come occupare tutto quel tempo a disposizione? Senza il mio computer e senza neanche la distrazione di un libro da leggere?
Sin da piccolissimi si è abituati ad avere un obiettivo ben definito, e lo avevo fatto per 32 anni, ma di fronte all'orizzonte del “tempo libero per me”, ossia vuoto, che fare? Cercare sé stessi? Meditare? E come si meditava?
Nella grande sala osservavo spesso con un occhio aperto ed uno chiuso, i monaci che sedevano immobili e concentrati, con le gambe incrociate, fino a quando non suonava il gong che invitava ad alzarsi ed a camminare. Spesso mi si addormentavano le gambe, e al suonare del gong mi alzavo zoppicando.
La meditazione era più difficile di quello che pensassi, ed invece di provare una sensazione di estasi, spinta dalla ricerca del “nirvana”, mi sentivo spaesata ed estremamente scomoda, dopo anni vissuti in una gabbia di doveri, impegni e obbligazioni, imposti dai nostri tempi frettolosi. Ma quel tempo trascorso, e “perduto” nel monastero fu cruciale per me. Vivere un ritmo lento, senza pensare al domani e senza avere alcun tipo di aspettativa, mi sviluppó un interesse maggiore verso il corpo come strumento di conoscenza, risvegliando probabilmente anche alcune sinapsi e funzioni fino ad allora in letargo.
Di ritorno a Pechino, senza nessuna certezza sul mio destino, ispirata dal libro di Terzani, decisi di cercare un indovino cinese. Entrai in un negozio in cui vendevano incenso, candele, e oggetti artigianali, e chiesi al gestore se sapeva dove potessi incontrarne uno. Lui puntò il dito verso il fondo del negozio e disse: “Lì”.
Dietro un lungo tavolo di ciliegio, sedeva un uomo anziano con capelli e barba lunghi e bianchi, vestito con una tradizionale tunica cinese. Mi chiese la data e l'ora di nascita ed incominciò a disegnare delle linee orizzontali e verticali. Lo ascoltai con grande emozione mentre sciorinava il mio passato, anche con dettagli molto appropriati. Poi parlò del mio futuro, rivelandomi fra l’altro che avrei incontrato una persona molto importante per me, un tipo alto circa 1 metro e 82, qualcuno più anziano di me come guida, e poi parló di viaggi, e case in vari paesi. Una vita da film, direte voi. Proprio cosí.

Come fu, come non fu, un mese dopo conobbi un cantante americano alto 1 metro ed 82, occhi azzurri, capelli biondi fino alle spalle, e molto più giovane di me. Mi ritrovai perdutamente innamorata di lui. Un colpo di fulmine a ciel sereno, uno tsunami emotivo mai vissuto prima di allora. La stessa aria vibrava dalla passione intorno a noi, se ne accorgeva anche chi ci stava vicino. Ma quel residuo di razionalitá che mi restava in fondo allo zaino mi impose di fare le valigie in fretta e furia e in due giorni lasciai la Cina. Rientrai in Germania, con le gambe tremanti. Non ero piú la stessa, evidentemente. L'unica cosa che volevo fare era dipingere, nient'altro. La nuova identità mi chiedeva tempo per “conoscermi”, perché quello che ero stata nel passato pareva non avesse più senso. Chi ero allora?

Nel frattempo ricevetti un'offerta di lavoro a Barcellona, una città che in quel momento non mi attirava affatto, perché mi sembrava una sorta di paese dei balocchi, estremamente superficiale, piena di turisti chiassosi. Solo molto tempo dopo Barcellona divenne il terreno per un nuovo percorso di conoscenza. E decisi di diventare una Nomade Digitale, per organizzare il lavoro in forma piú libera, comprando “parole chiave” da qualsiasi punto del pianeta. Quindi vivevo fra Barcellona, Monaco di Baviera, la Sardegna e Zurigo, dove abitava l'“Ottimizzatore”, un fidanzato che mi appoggiava in qualsiasi mia impresa. Per 3 anni viaggiai molto intensamente, prendendo fino a 54 voli all'anno, scoprendo nuovi angoli del pianeta e lavorando con una connessione internet ed un PC. Mi organizzavo la giornata in modo da lavorare poche ore, per poi dedicarmi ad altre attività. Guadagnavo molto bene e avrei potuto guadagnare molto di più investendo più ore nel lavoro, ma il mio obiettivo non era una crescita esponenziale dei risparmi sul conto bancario, bensì un investimento in tempo libero. Il tutto risultó molto interessante, perchè ebbi la possibilità di capire certe dinamiche legate all'uso delle nuove tecnologie, come i fenomeni di burn out (stress dovuto alla carica di lavoro), allo smart working, alla digitalizzazione, agli effetti di una riduzione dell'orario di lavoro sulla produttività. Ebbi il tempo di riflettere sulle forme di lavoro svolte per necessità, come fonte di sostentamento, e quelle invece piú legate alla realizzazione personale. Tutte tematiche molto attuali, o che lo diventeranno sempre più in futuro. Ma succede che troppo spesso si tende a indentificarci così tanto con il proprio lavoro, che si dimentica chi si è. In certi ambienti l'apporto produttivo, il successo professionale e lo status socio-economico raggiunto o apparente è più importante di qualsiasi altra cosa.
Chi non si adatta al sistema è considerato un outsider.
Non so se sto diventando una outsider, ma negli ultimi cinque anni, poco alla volta, ho aumentato la quantitá di tempo dedicata ad attivitá non economiche, come dipingere, disegnare, lavorare sul mio corpo con danza e yoga, studiare.

In questa ricerca sono stata probabilmente influenzata anche dallo stile di vita del mio compagno tedesco, (come no?), Thomas. Anche lui alto 1,82, e con dettagli extra che sarebbero piaciuti al saggio indovino cinese. Artista, lavora il legno come mio padre, è nato 40 anni dopo mio padre, lo stesso mese, solo con un giorno di differenza. Vive in una casa/laboratorio vicino alla montagna sacra di Montserrat, in Catalogna, a tre chilometri dal centro abitato. Una casa senza riscaldamento, freddissima in inverno, senza acqua corrente, solo con l’acqua piovana raccolta in un pozzo.

Ed eccomi,  la Ivana supermoderna Nomade Digitale, seduta fuori in un tavolino con vista alla Montagna di Montserrat, il tepore del sole, il cane Negretta accucciata accanto, il profumo dei fiori di primavera, il canto degli uccellini, i miei piedi nudi a contatto con la terra umida di rugiada. E il computer acceso su una Landing Page, che offre uno sconto di scarpe agli utenti su internet. Mi guardo attorno. Di fronte a me, fuori, il verde e l'azzurro del cielo, e dentro,  lo schermo di un computer. La realtá virtuale e quella solida, tellurica, che porta in sé milioni di anni scolpiti dal tempo in una roccia, non possono piú conciliarsi come prima. Devo cambiare il modo di vivere.
Per me questo ha significato cercare di far pace anche con la mia terra originaria, la Sardegna, cominciando a guardarla con altri occhi. Riscoprendo per esempio aspetti intangibili, ma vivi e palpabili, come il valore degli scambi di vicinato e la collaborazione fra le famiglie, piccole o grandi che siano, quel “sapere relazionale” che spesso nelle cittá si perde. E' proprio questo che mi ha motivato a organizzare degli eventi culturali sul territorio sardo, invitando artisti stranieri nel mio paese natale, in vista di uno scambio culturale.
Adesso, la pandemia che isola luoghi e persone, e ci tiene lontani dalla terra natale e dalla socialitá, che ci taglia il Fuori, ci fa sentire drammaticamente quanto sono importanti i rapporti personali, e le proprie radici, come parti costitutive del Dentro. Alla fine, probabilmente come diceva anche Tiziano Terzani, è tutto un cerchio. E questo viaggiare e conoscere l’Altro e l’Altrove, e riprendere il filo del Passato nel Presente, non è altro che una ricerca della profonditá del nostro essere, l’Altro nel nostro Io. Per ora il mio “andare” mi ha insegnato a fermarmi, a sedermi, e a vivere coscientemente il tempo. La linea dell'orizzonte, che tanto mi piaceva fissare quando ero piccola, da un lato segna i limiti spaziali di noi esseri umani, ma allo stesso tempo suggerisce infiniti spazi di possibilità, che forse potranno essere realizzati in futuro. Ma ogni passo che diamo ogni giorno, osservando, creando, comprendendo, é ció che costruirá il Tutto del domani.

Questo é quello che ho capito.

 

 

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