{jcomments on}È possibile soffrire la fame solo perché sei donna?

di Massimo D’Angelo

Il concetto sembra assurdo, ma non in Afghanistan.

Visto che su di una popolazione di 29 milioni, circa un terzo vive al di sotto della linea della povertà assoluta, non è una sorpresa che la denutrizione sia molto diffusa e colpisca in modo cronico il 54% della popolazione.  Né mi meraviglia che tra i gruppi sociali più vulnerabili a fenomeni di denutrizione ci siano le donne e i bambini.  Per chi come me si è occupato di paesi in via di sviluppo per tanti anni, immagini crudeli di mancanza di nutrimento non sono nuove. Le cause sono prevalentemente legate alla povertà, ma anche ad emergenze straordinarie, legate a siccità e a carestie, a guerre e ad emigrazioni forzate. Tutto ciò non è una novità, anche se non ci si abitua mai a vedere scene strazianti di persone prive dei mezzi più  elementari di sussistenza quali l’acqua e il cibo.

Ciò di cui non mi capacito è come mai gli indicatori sulla condizione femminile in Afghanistan rivelino che il fenomeno della malnutrizione colpisca le donne non solo nelle famiglie povere, ma anche in quei nuclei familiari che in teoria non soffrono di scarso accesso al cibo. Controllo i miei appunti, faccio verifiche incrociate con diverse fonti di documentazione al fine di verificare che non mi sia sbagliato. No, non ho letto male. Tutte le fonti concordano con questa conclusione. La denutrizione colpisce le donne in Afghanistan anche in famiglie che non sono affette da carenza di cibo. Ovviamente non in tutte, ma il fatto che questo fenomeno esista e riesca ad essere

statisticamente rilevato, è sintomatico di problemi ben più gravi.

Sono dati questi che vanno al di là delle prime impressioni riportate nei miei appunti di viaggio pubblicate su Partecipagire (“Donna in Afghanistan”  18 aprile 2012)Bisogna entrare nei segreti delle pareti domestiche, e questi fenomeni non trapelano dagli sguardi furtivi di chi incontri per la strada.  Eppure i numeri sono numeri, e oggettivamente inchiodano questa dura realtà senza equivoci.

Mi aspettavo che la condizione di denutrizione fosse associata alla povertà assoluta e che potesse essere ancora più grave fra le donne, visto che la mortalità materna in questo paese è tra le più alte del mondo (il secondo tasso più grave dell’intero pianeta), e che le future madri soffrono di condizioni estremamente precarie per partorire. Inoltre, la frequenza di gravidanze in età precoce è molto elevata, poiché le donne spesso si sposano quando sono solo adolescenti. Gli intervalli tra una gravidanza e l’altra sono troppo ridotti: mediamente, le donne afghane hanno 6,6 figli durante la loro vita riproduttiva, una bella differenza rispetto ad una media mondiale di 2,56 figli. Il 57% delle ragazze al di sotto di 16 anni sono già sposate, anche se ci sono sintomi di miglioramento, specialmente in zone urbane.

Con una speranza di vita al momento della nascita pari a solo 44 anni, le donne afghane hanno un tasso di mortalità più alto degli uomini della stessa età. Il loro accesso all’assistenza sanitaria è fortemente limitato. Solo il 19% delle donne partoriscono in luoghi che sono idonei a garantirne la salute. il 21% delle donne in età riproduttiva è malnutrita, con carenze di ferro, di vitamina A e di iodio, con conseguenze gravissime come anemia e cecità, un indebolimento del loro stato generale di salute e vulnerabilità alle malattie più diverse. Donne incinte sotto peso rischiano di causare la trasmissione della condizione di denutrizione anche ai loro bambini dopo il parto.

Non c’è dubbio che la malnutrizione è figlia della povertà assoluta e colpisce indifferentemente uomini e donne in Afghanistan. Eppure, l’incrocio della condizione di diffusa povertà con l’inferiorità dello stato sociale della donna non poteva che tradursi in dati più drammatici sulla denutrizione femminile rispetto a quella maschile. Gli indicatori sociali parlano con insistenza di “femminizzazione” della povertà in Afghanistan: le donne sono più povere degli uomini, e la loro abilità a superare questa condizione è decisamente inferiore rispetto a quella degli uomini, conseguenza di una lunga storia di discriminazioni e di disuguaglianze.

Un numero elevato di donne rientra nella categoria di coloro che possono essere definiti come “poveri cronici”, e questa condizione colpisce particolarmente le vedove, la cui posizione di “capo famiglia” è vista in Afghanistan con rigetto, accompagnandola a forte esclusione sociale.  Le vedove sono “incoraggiate” a risposarsi sotto la pressione sociale degli stessi parenti, proprio per non essere marginalizzate ai bordi della società.

Leggo queste analisi sociali e ricordo il volto straziato di una donna ormai non più giovane intravisto dietro un burqa sporco e un pò sdrucito. La incontravo spesso in mezzo alla strada, nel pieno del traffico confuso del tardo pomeriggio, al ritorno dall’ufficio. Non dimenticherò mai l’espressione disperata di quel viso, mentre la donna bussava con insistenza al vetro antiproiettile del mio SUV blindato, facendomi segno che aveva fame. Avevo l’impressione netta che fosse costretta ad umiliarsi in quel modo per chiedere l’elemosina e portare a casa qualcosa da mangiare.  Il mio autista mi spiega: è una vedova (non so come lo abbia intuito, ma evidentemente non è un caso isolato). È costretta a mendicare, perché la sua famiglia non vuole aiutarla e nessuno le darebbe un lavoro. È un “rifiuto” umano, esclusa dalla sua società, divenendo povera tra i poveri, rigettata dai suoi stessi parenti, perché una donna senza un uomo non è degna di partecipare alla vita sociale con gli stessi titoli degli altri afghani. Ovviamente di ammortizzatori sociali non c’è neanche l’ombra.

Ma mentre la denutrizione nei nuclei familiari ove la donna è capo famiglia è frequente, ed associata all’altrettanto frequente presenza della condizione vedovile in un paese che ha sofferto per eventi bellici e di violenza militare per tanti decenni, la denutrizione nelle famiglie che non soffrono di carenza da cibo mi lascia più sconcertato: questa situazione è il risultato di condizionamenti culturali che impediscono la partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica del paese, relegandole all’unico ruolo accettabile in alcuni ambienti, quello del lavoro domestico, sotto la “protezione” vigile di un consorte. Certo questo non si applica a tutte le famiglie, ma il fatto che sondaggi statistici riescano a cogliere queste condizioni è allarmante.

Come vivono quelle donne in quelle case? Che tipo di rapporti le lega ai propri mariti? I pochi dati sulla violenza domestica, fortemente sottostimati, sono spaventosi, anche se è raro che le donne ricorrano alle vie legali per tutelare i propri diritti fondamentali.

Dal 2005, le cose sono notevolmente migliorate, specialmente nei centri urbani.  Ma il superamento dei ritardi per l’accesso femminile alle strutture educative ancora richiede molti anni per divenire una realtà.  Il tasso di analfabetismo tra le donne ha livelli acutissimi: tre volte quello degli uomini, anche a causa di una sistematica esclusione durante il periodo talebano da ogni forma di istruzione per le donne.  Oggi giorno fa impressione vedere così tante giovani donne che vanno a scuola con le loro uniformi, col capo coperto dal loro velo bianco, specialmente se messe a confronto con il divieto assoluto che il regime talebano imponeva loro solo pochi anni or sono. Ma nelle zone più remote, probabilmente i cambiamenti sono ancora lenti a venire.

Riesco solo ad immaginare la quantità di divieti che obbligano le donne ad un ruolo inferiore che noi definiremmo medioevale. Le donne sono spesso escluse da tutta una serie di attività sociali ed economiche. In alcune province, il loro impiego in attività produttive esclude qualsiasi mansione che implichi rapporti con il mondo esterno alla famiglia, imponendo al ceto femminile una condizione di vera e propria segregazione. Ne consegue l’esclusione delle donne da molte istanze decisionali , nell’ambito della famiglia e dei villaggi.  Insomma le donne non riescono ad avere alcun riconoscimento di un ruolo proprio al di fuori delle funzioni tradizionali, ove subiscono il controllo, la supervisione e l’intermediazione dei propri mariti e dei propri padri, unici titolari di diritti sulle loro capacità.

Probabilmente la moglie subirà l’umiliazione costante di doversi accontentare delle briciole, di ciò che avanza dalla tavola, senza eccepire, né potersi proporre con un ruolo diverso. Ci si aspetta che la mamma si sacrifichi a vantaggio del marito, suo capo assoluto, anche quando questo non è assolutamente necessario?

Ricordo l’espressione di una giovane madre adolescente che incontrai all’aeroporto, mentre ero in attesa del mio volo per Doha. Aveva in braccio il suo bel bambino, ed era al seguito di un marito ultra-settantenne, che controllava guardingo che nessuno interferisse sulla sua giovane consorte, lui con sguardo severo e duro, lei ingenua e sorridente.  Cercai di evitare di soffermarmi a guardarla per non suscitare gelosie inopportune. Guardai il bambino, ben pasciuto, tanto simile ai miei nipotini, e lei non poté evitare di sorridermi compiaciuta.  Volsi lo sguardo al marito, che impietrito ostentava indifferenza.                                                                                                                                         Forse quelle espressioni non volevano dire nulla. Eppure, quelle statistiche dicono che tante mogli soffrono soprusi. Chissà, forse quei sorrisi e quelle indifferenze dopotutto volevano dire qualcosa: le contraddizioni di un mondo che stenta a rinnovarsi. Rimango preoccupato.  Come si fa a spezzare la catena della disuguaglianza femminile, quando le donne sono sottoposte a tali costrizioni? Può la cooperazione internazionale fare qualcosa o tutto sta nelle mani delle donne afghane, unici soggetti che hanno tanti diritti da rivendicare? Ho molte domande e poche risposte.

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foto: Afghan Action Aid.

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