FAKE NEWS E DEMOCRAZIA

Intervista a Antonio Ingles

P.B. - Nel secolo scorso si affermò l’idea che la Democrazia rappresentativa fosse la forma migliore di organizzazione sociale (o perlomeno che fosse la meno pericolosa e dannosa). Tuttavia le nuove sfide che si propongono alle Società attuali, stanno mostrando quanto poco rappresentative siano le nostre forme di democrazia. Inoltre esse sono evidentemente fragili e non riescono a combattere fenomeni di perversione come l’estendersi capillare della corruzione e l’infiltrazione di poteri estranei alle istituzioni, inclusi quelli delle organizzazioni criminali.

I nostri sistemi democratici sono stati tutti adottati per ridurre la conflittualità tra gruppi sociali con interessi contrastanti e diversi. Il gioco delle votazioni e il principio della maggioranza, stabiliscono le regole essenziali per le decisioni politiche. Tuttavia esse non garantiscono che tali decisioni siano le più corrette o vantaggiose per la Comunità, nell’insieme delle sue componenti sociali. Lo potrebbero essere solo se la maggioranza votasse sempre secondo il principio del bene comune e sulla base di informazioni sicure e veritiere.

Poiché questo non accade, il sistema scricchiola e, in mancanza di una alternativa sperimentata valida, tornano di moda vecchie formule di autoritarismo con la speranza che un potere di governo forte, sia in grado di risolvere ogni problema.

A. Ingles - Prima di entrare nel vivo della questione, vorrei proporre alcune considerazioni preliminari, che lo stesso tema dell’intervista mi sollecita. Credo bene di capire che in nessun momento si pone in dubbio l’idoneità della Democrazia rappresentativa (che si esercita votando a maggioranza). Ciò che invece si discute è il valore che le attribuiamo (cioè il potere che cediamo) e il grado di accettazione o di conflittualità che ne deriva (la capacità di sottomettersi al risultato ottenuto) per il periodo che duri la legislatura (tempo).

Innanzitutto, non possiamo ignorare che il potere che scaturisce da questa rappresentatività, si canalizza attraverso i gruppi politici legalmente costituiti che, naturalmente, sono formati da persone ideologicamente affini. La perversione del sistema si produce quando non è tutta la società quella che si manifesta votando, ma solo una parte di essa. Cioè, nel gioco del potere che si concreta con il risultato delle elezioni, una gran parte della società rimane esplicitamente al margine perché non riesce a riconoscersi nei principi programmatici dei partiti che costituiscono lo scenario parlamentare.

In secondo luogo, si sa bene che “questa maggioranza silenziosa” non è omogenea. Nel suo seno convivono molteplici interessi che i diversi gruppi al potere affermano di voler rappresentare, manipolandoli in forma tale da confermare la loro posizione nei confronti del resto dei propri avversari politici. Quando questo accade, la minoranza che originalmente rappresentava la parte interessata, rimane indifesa, essendosi autoesclusa dal sistema e pertanto non riesce ad essere legalmente rappresentata, e nemmeno può contare sui vantaggi delle risorse mediatiche che il sistema offre a chi accetta di farne parte attivamente. 

In conclusione, il malcontento di questa minoranza, diventa opposizione e la paura di perdere elettori fa che i partiti si pongano sulla difensiva. Cioè, preferiscono distruggere gli argomenti degli oppositori piuttosto che negoziare una risposta fattibile per la società. E’ un circolo vizioso che riesce a generare tensioni, aumentare l’astensionismo, togliere credibilità al sistema e aumentare lo scontento e l’allontanamento dell’elettorato dai propri rappresentanti.

P.B. - A proposito di circoli viziosi, come è possibile che tante persone si lascino influenzare da informazioni false o scorrette?

A. Ingles - Una domanda interessante che, secondo me può indurre in equivoci, perché inverte l’onere della prova. Cioè, dobbiamo davvero partire dalla premessa che tutte le volte che riceviamo un’informazione o qualcuno dibatte con noi un argomento, ci stia mentendo o cercando di manipolarci? Il principio della “bona fide” ci ricorda che la sfiducia tra le parti non facilita certo la comunicazione. Questo non significa in nessun momento che dobbiamo rinunciare alla possibilità di mantenere una posizione critica o anche contraria, a quella del nostro interlocutore.

Le norme della buona comunicazione ci insegnano che per ogni messaggio c’è un autore e un destinatario. La responsabilità del messaggio è dell’autore che è anche colui che ha la convenienza ad assicurarsi che il destinatario ne abbia capito correttamente il contenuto.

Ci dice anche che è impossibile non comunicarsi e che, quando non c’è risposta, questo silenzio ha il valore di una conferma. Voglio dire che se non si respinge esplicitamente, si sta implicitamente accettando. Tuttavia, la finalità o l’intenzionalità che è insita nel messaggio non sempre è evidente a prima vista. Quando ciò accade, il contenuto si trasforma in un mezzo per ridurre la resistenza di chi riceve e ottenere la sua accettazione o collaborazione.

Conseguentemente, dovremmo domandarci che intenzioni si nascondono dietro le informazioni, quando queste sono false o non corrette, e quanta responsabilità investa chi le confeziona. Detto questo, è evidente che quanto più il contenuto del messaggio si avvicina alle credenze e ai valori propri di chi quel messaggio riceve, tanto più facilmente ne sarà riconosciuta e accettata la sua validità, ciò anche se fosse solo parzialmente veridico. Accade anche che, quando il destinatario manca di un criterio proprio sul tema in questione, tende ad affidarsi alla rispettabilità della sua fonte informativa e considera come propri, i contenuti proposti.

P.B. - Perché il web e le reti sociali riescono a convincere superando il senso critico delle persone?

A. Ingles - Secondo me, non si può rispondere a questa domanda senza tener conto della complessità cui sono pervenute oggi le tecnologie dell’informazione. Tempo fa ho letto in un vecchio manuale di strategia militare, una domanda che richiamò fortemente la mia attenzione: “Como influisce il terreno dove si svolge la battaglia?” La risposta mi colpì per la semplicità della sua argomentazione: “Utilizzato bene, sarà il tuo migliore alleato, utilizzato male, sarà il peggior nemico”.

Internet è il mezzo, o meglio ancora, il terreno, sul quale ogni giorno si svolge una battaglia mediatica che ha come obbiettivo quello di influire sulla capacità decisionale delle persone che navigano sulla rete.

La facilità di accesso che offrono alle persone i loro terminali di rete, assieme all’immediatezza delle risposte che si ottengono, hanno trasformato questo mezzo in uno strumento fondamentale per disporre dell’informazione che si desidera. L’aspetto negativo di questo sistema sta nel fatto che la molteplicità delle risposte che si possono trovare per lo stesso argomento, può generare dubbi e confusioni.

Sembra logico pensare che un’informazione corrisponda all’ottica di chi la diffonde, il quale, inevitabilmente difende come può le sue posizioni. Non dimentichiamo che, anche se un fatto deve considerarsi unico, possono esserci tante interpretazioni per quante persone vi abbiano preso parte. Al fine di attenuare i danni dovuti alle confusioni e agli inganni dolosi, esistono normative che tutelano la veridicità dei fatti pur permettendone la libera interpretazione e il rispetto della libera espressione. Il problema risiede nell’interpretazione che ogni persona fa del contenuto e il grado di fiducia che attribuisce alle fonti che sta consultando. Inoltre, nel caso delle reti sociali come Facebook o Instagram, dobbiamo mettere in conto che l’identità personale di ciascun membro della rete si rafforza attraverso l’accettazione o il riconoscimento che ottiene dal resto del gruppo. Cioè, la quantità di amici o followers decide l’esito o il fiasco della proposta. Quindi, il desiderio di accettazione e il grado di identificazione con il gruppo sociale al quale si appartiene fanno sì, nella maggioranza dei casi, che si accetti come buona un’opinione o una proposta, senza che se ne verifichi la veridicità.

P.B. - Se la maggioranza non è affidabile, che ruolo può svolgere quella minoranza che invece ritiene di avere i mezzi culturali e intellettuali per formarsi un’opinione più giustificata dei fatti?

A. Ingles - La formulazione della domanda (- Se la maggioranza non è affidabile) contiene sfumature che, secondo me, travestono il messaggio in essa contenuto. Inoltre, nel fare una domanda ipotetica (che ruolo può svolgere...), stiamo aprendo la porta a speculazioni attraverso risposte che non suppongono conclusioni necessariamente valide.

Cercando di captare correttamente lo spirito di questa domanda nel contesto di questa intervista, credo che ci stiamo riferendo specificamente alle maggioranze che risultano dal gioco politico e, genericamente alla parte della società che le sostiene. Cioè, che confidano in loro. In contrapposizione a coloro che confidano, situiamo nello scenario politico e sociale, coloro che, vedendo defraudate le proprie aspettative, non si fidano dei primi. Nell’ambito di questo stesso gruppo sociale (coloro che non confidano) distinguiamo tra quelli che non hanno la capacità critica e quelli che sì ce l’hanno e, secondo quanto si può dedurre dalla domanda, è su questi ultimi (minoranza qualificata) che stiamo scaricando la responsabilità di agire, attribuendo loro un “ruolo”.

Se quanto sopra è corretto, secondo me, quelli che sì posseggono le qualità per esercitare una funzione critica, hanno l’obbligo di farlo, esponendo le ragioni che, secondo loro, smentiscono la fiducia nella maggioranza costituitasi in forma indipendente, qualunque sia la sua condizione. Per quanto attiene al “ruolo che possono svolgere” stiamo attribuendo loro una intenzionalità che va più in là della funzione critica. Poi, secondo me, sarà la intenzione finale di questa funzione a qualificare il “ruolo” necessario a rappresentare quella minoranza. Ciò dipenderà dall’ambito politico e sociale sul quale si pretenda influire. Indipendentemente dai mezzi e dalle risorse utilizzate per diffondere le proprie opinioni, nel libro ‘L’Arte della Guerra’ , l’Autore suggerisce : “quello che da te dipenda, fallo…”, facendo intendere che non possiamo aspettare che altri partecipino alla lotta quando noi stessi schiviamo le nostre responsabilità.

P.B.   Qual è il ruolo dell’intelligenza nel gioco delle opinioni politiche?

A. Ingles - Nell’ambito personale è sufficiente applicare il noto detto italiano “Prima di aprire la bocca, assicurati che il cervello sia connesso” . Nel contesto politico, l’intelligenza è parte del bagaglio professionale e si riflette nella retorica delle sue manifestazioni, in particolare nei confronti degli avversari. Per esempio, risulta evidente che le statistiche sono utilizzate per confermare, smentire o modificare i criteri che giustificano una determinata azione. Quindi sembra intelligente pensare che a seconda di chi filtri o confezioni il ricorso alle statistiche, il risultato possa esserne condizionato; intelligente è dedurre che l’interpretazione degli avversari sarà diversa e lontana dalla propria; intelligenza è scegliere ciò che si dovrà esporre sulla base di argomenti capaci di rafforzare i propri risultati o di smontare quelli altrui. Quindi, politico o no, quando si diffonde un’opinione, l’intelligenza non è tanto nel dire quello che si pensa quanto pensare prima a quanto si vuole dire.

Ora, se quando parliamo di intelligenza, lo facciamo riferendoci ai processi tecnologici basati sull’intelligenza artificiale, allora il modo di affrontre la questione è completamente distinto. In questo caso non parliamo della dialettica del confronto politico, ma della modifica delle regole stesse che condizionano il gioco. Specialmente quelle regole che possono influire sulla composizione delle forze politiche sulle quali si basa la democrazia rappresentativa. I dati personali raccolti dalle numerose applicazioni che oggigiorno saturano le nostre relazioni, sono analizzate con algoritmi specifici e segmentati, con lo scopo di confezionare un profilo personale che rispecchia le nostre tendenze e può essere usato in determinate circostanze. Certo è che l’uso di questi dati da parte di partiti politici in campagna elettorale, può aiutare a definire obbiettivi più consoni alla realtà sociale del momento, però è anche certo che nelle mani di malintenzionati, possono cambiare il segno della  storia, modificando l’equilibrio delle forze politiche di un Paese.

L’INTERVISTATO

Antonio, l’ho conosciuto più di quattro anni fa al centro culturale dal nome assetato: BiblioMusiCineteca, che avevo appena cominciato a frequentare. Il centro mi aveva incuriosito. Barcellona è piena di centri culturali e c’è di tutto, compresa la marijuana. Ma questo era singolare. Messo in un rione pieno di storia: Poble Sec, al limite di un altro rione ancora più miticamente storico: Raval, culla di anarchia, artisti popolari e no, pushers, immigrati, clandestini, attori e autori underground e non sempre. Antonio organizzava e organizza il Club dello Specchio, il cui successo è misterioso quanto la sua definizione. Due ore mensili di provocazione raffinata, ottenuta attraverso il contagio di un miscuglio di strumenti comunicativi: dalla parola alle immagini ai suoni e a qualunque altra cosa capace di evocare ricordi, stimolare emozioni ed esercitare la mente. Uno spettacolo per pensare. Antonio è uno spirito rinascimentale. Un noto giornalista locale, Enrique Lopez, così ha detto di lui: “il suo curriculum è davvero impressionante. Basterebbe sfogliare rapidamente un calendario per ritrovare Antonio Inglès in una successione di immagini sorprendenti: dirigendo imprese di alta tecnologia, concentrato nella lettura di testi di psicologia e sociologia oppure su un tatami di arti marziali. Impartendo seminari di comunicazione audiovisuale, dinanzi al quadro dei comandi di un aereo o partecipando ai segreti dei migliori maestri di terapia corporale e mentale.  Realizzando video e scrivendo articoli o, finalmente, collaborando con la Direttiva del Collegio degli Agenti Commerciali di Barcellona, della quale ha fatto parte per più di trent’anni.”

Insomma, un uomo singolare la cui ricca umanità si nasconde discretamente nella sua poliedrica personalità.

Paolo Basurto

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