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Sulla democrazia negli organismi internazionali

Partendo da esperienze personali, che mi hanno portato a lavorare per tanti anni presso organizzazioni internazionali del sistema delle Nazioni Unite, mi è venuto spontaneo chiedermi sul significato di democrazia quando portiamo questo concetto nell’ambito di quelle organizzazioni.  Sono le Nazioni Unite democratiche? Sono democratiche le sue agenzie come l’UNICEF, la FAO, l’UNDP, l’OMS?  E cosa si può dire della democraticità della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale? O dell’OCSE?

Ovviamente, il concetto di democrazia si applica al governo di un popolo, e trasferirlo agli organismi internazionali sembra una forzatura.  Eppure, se prendiamo le prime righe della Carta delle Nazioni Unite, cominciano con l’espressione “We the peoples of the United Nations determined…” Noi, i popoli delle Nazioni Unite determinati a…).

 

Visto che la Carta parla di “noi i popoli”, sono le Nazioni Unite un’espressione democratica di questi popoli?  Tutto sommato hanno organismi collegiali come l’Assemblea Generale ed il Consiglio Economico e Sociale che sembrano tanto dei parlamenti mondiali.   Il fatto che coloro che fondarono le Nazioni Unite pensassero in primo luogo ai “popoli” delle Nazioni Unite potrebbe far concludere che quello che avevano in mente era un’estensione a livello internazione del concetto di democrazia originato a livello nazionale, supponendo che lo stesso concetto si possa applicare ai popoli quando si mettono insieme.

È anche sintomatico che la Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 25 giugno 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, fu seguita pochi anni dopo dalla Dichiarazione Universale dei DIritti Umani (adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre del 1948), che rafforza questo concetto che l’ONU sia fondata sulla protezione dei diritti umani fondamentali, e che quindi sia uno strumento per la tutela dei popoli che si riconoscono in essa.


 

Organizzazione di popoli o di governi?

Ma rimane il fatto che la stessa Carta delle Nazioni Unite, dopo aver cominciato bene parlando di “popoli” e della loro determinazione a volere un mondo diverso, conclude la prima pagina di quel bellissimo documento con un ridimensionamento delle sue ambizioni democratiche, affermando che “i nostri Governi, attraverso i rappresentanti riuniti a San Francisco (…) esprimono il loro consenso nei confronti della presente Carta delle Nazioni Unite e attraverso di essa decidono di creare un’organizzazione che sarà nota come le Nazioni Unite”. Avevano cominciato bene, parlando di “popoli”, ma per il resto della Carta parleranno sempre di “governi”  e di come i loro rappresentanti lavoreranno nell’ambito delle Nazioni Unite per raggiungere gli obiettivi ultimi della Carta.  E qui la domanda iniziale è quanto mai valida: in che modo i popoli delle Nazioni Unite riescono ad esprimere la loro volontà attraverso i suoi meccanismi, visto che sono rappresentati dai loro governi?

Ovviamente i governi del mondo sono molto diversi tra di loro: molti si dichiarano democratici, alcuni si chiamano “popolari” (prima del crollo del blocco sovietico, questi ultimi erano molto di più), altri preferiscono non pronunciarsi o utilizzano espresssioni ambigue, come republiche islamiche, o altro.  Nessuno è in grado di giudicare la bontà dei meccanismi democratici di ciascun paese in modo esauriente se non il popolo stesso di quel paese (dopo tutto su questo si basa il principio dell’autodeterminazione), ma non c’è dubbio che tanti di questi paesi sono stati teatro di dittature, a volte atroci.  Ma anche nei casi di paesi democratici, fino a che punto i loro rappresentanti all’ONU o nelle sue componenti, sono un’espressione adeguata della volontà popolare?  O forse è meglio ignorare il quesito, perché accettare il concetto di democrazia rappresentativa significa accettare ad un certo punto che in un modo o nell’altro i rappresentanti governativi sono un’espressione più o meno legittima di una delega popolare, che avviene al momento del voto?  (E questo sempre che ci sia stato un “libero” voto, e su questo ci sarebbe tanto da dire).


 

I limiti della delega elettorale nelle democrazie rappresentative

Eppure sappiamo che il voto non basta. È importante: senza di esso sappiamo che saremmo destinati a una dittatura inevitabile. Ma il voto non è perfetto.  RIchiede verifiche periodiche frequenti.  Richiede un modo partecipato della gestione della cosa pubblica che riempia il vuoto tra un momento elettorale e l’altro.

Questo non significa relegarsi dietro a concetti utopici di democrazia diretta.  La delega che avviene nel momento elettorale nei confronti del rappresentante eletto è una condizione inevitabile di qualsiasi democrazia moderna.  Ma questa delega non è illimitata: ha tanti vincoli.  Quando il rappresentante eletto ignora questi vincoli, e crede di aver mano libera di fare quel che crede, grazie al potere ricevuto con la delega, nega il valore stesso del significato democratico del mandato che ha ricevuto.  C’è in quel caso il rischio che non sia sufficiente lo scrutinio alle prossime elezioni, quando il rappresentante dovrà render conto all’elettorato: i tempi potrebbero essere troppo lunghi, o la capacità della base di incidere sulle decisioni degli organismi legislativi o esecutivi potrebbe essere troppo facilmente vanificata.

Ma se questo vale all’interno dei governi nazionali, ancor più ciò è valido quando parliamo di rappresentanti nelle organizzazioni delle Nazioni Unite, che esprimono la volontà dei singoli governi, ed in quanto tali, neanche dei popoli che li hanno determinati.  D’altronde, non c’è via di uscita.  Non sarebbe immaginabile avere un’Assemblea Generale dell’ONU ove, invece dei rappresentanti dei governi ci siano i rappresentanti dei singoli popoli, come nel Parlamento Europeo.  Se l’Assemblea Generale, nella sua attuale condizione, è difficile da gestire, visto il numero elevato di paesi membri dell’ONU, immaginiamoci cosa avverrebbe se fosse una specie di Parlamento Mondiale, a elezione diretta dei popoli dei suoi paesi membri.  Naturalmente non escludo visioni futuristiche che richiamino visioni fanstascientifiche di governi mondiali, ma  nel futuro più immediato, questi meccanismi sono inimmaginabili, visto che non siamo ancora sicuri dei diritti democratici all’interno dei paesi membri  delle Nazioni Unite.  Inoltre, non dimentichiamoci che nei documenti fondamentali che accompagnarono la creazione delle Nazioni Unite, l’espressione “democrazia” non fu mai usata, e ciò non dovrebbe meravigliare visto che uno dei paesi fondatori dell’ONU era l’Unione Sovietica del periodo di Stalin.


 

La democrazia tra stati: un paese un voto, oppure no?

Una delle caratteristiche fondamentali del funzionamento delle Nazioni Unite e delle sue agenzie è che sono espressione della volontà dei governi che ne fanno parte.  Questa espressione segue una regola molto semplice: un paese, un voto (così come in una democrazia popolare, vale una regola analoga: una persona , un voto).  Il problema è che un paese può rappresentare centinania di milioni di persone oppure poche migliaia di abitanti. Basta pensare alla Repubblica di San Marino e agli Stati Uniti d’America: nell’Assemblea Generale valgono un voto ciascuno.

Naturalmente questo meccanismo, che vuole evitare il potere eccessivo dei paesi grandi rispetto a quelli piccoli, ha non pochi inconvenienti.  Ha portato alla creazione di coalizioni, spesso su base regionale, con risultati che non sempre sono salutari per i “popoli” della terra.  Questo spiega che in un passato non tanto lontano un paese come la Libia di Gheddafi abbia potuto essere nominata come membro della Commissione dei Diritti Umani, grazie a queste alleanze, con il disgusto di molti paesi fortemente impegnati nella difesa dei diritti umani.

Ci sono dei correttivi a questo meccanismo “democratico” (un voto/ un paese)? in primo luogo, il Consiglio di Sicurezza fu creato con una composizione diversa, distinguendo tra membri permanenti e i paesi membri che vengono eletti a rotazione per un periodo limitato.  I primi sono i sei vincitori della seconda guerra mondiale e detengono un potere di veto nelle decisioni del Consiglio di Sicurezza, potere che non ha nulla di democratico, ma che ha ridimensionato il potere incontrollabile dell’Assemblea Generale.  C’è da dire che, fintanto che c’è stata la Guerra Fredda, questo potere di veto ha praticamente bloccato il funzionamento del Consiglio di Sicurezza, limitando la sua capacità di intervento.

In secondo luogo, il bilancio delle Nazioni Unite e delle sue agenzie, sia quello regolare che la parte finanziata con contributi volontari, è controllata in modo particolare dai paesi più ricchi, che si sobbarcano l’onere maggiore del bilancio.  E sappiamo benissimo che le attività che non hanno sufficienti mezzi finanziari per la loro realizzazione, anche se hanno il sostegno “democratico” della maggioranza dei governi, avranno scarsa probabilità di essere sostenute, mentre quelle che i paesi che sono i maggiori contribuenti finanziari , sostengono hanno maggiore probabilità di essere realizzate.

Questi limiti, tuttavia, non sono considerati a volte sufficienti. In ogni caso, le discussioni in corso sulla riforma del Consiglio di Sicurezza cercano di modificare il significato di questi limiti, per esempio per permette a paesi più popolosi di essere inclusi nella categoria dei membri permanenti del Conslglio, anche se non rientrano tra i vincitori del secondo conflitto mondiale.  Ma la questione è complessa, perché le rivalità internazionali per la riforma del Consiglio di Sicurezza sono tali che una soluzione accettabile per tutti è difficilmente dietro l’angolo.  In ogni caso, saranno queste misure di riforma del Consiglio di Sicurezza in grado di aumentare la partecipazione dei popoli delle Nazioni Unite alla   gestione delle sue attività?

Il correttivo alla democrazia basata sul peso finanziario trova un’ espressione particolare nel funzionamento degli organismi finanziari internazionali come la Banca Mondiale e l’FMI, o le banche regionali di sviluppo e, nel sistema delle Nazioni Unite, nell’IFAD (il fondo internazionale per lo sviluppo agricolo). In tutti questi organismi vale la “democrazia del dollaro”, cioè quanto maggiore il contributo finanziario del singolo paese, maggiore è il valore del suo “voto” nelle decisioni collettive.  Naturalmente questo criterio è poi attenuato da alcuni limiti, che non ne alterano però il significato profondo.  E anche in questo caso, come per il Consiglio di Sicurezza”, ci sono discussioni in atto per introdurre correttivi che diano maggiore spazio a paesi più deboli, cercando di far convergere la democrazia del dollaro con quella di “un paese/un  voto”, discussioni che tuttavia ancora non hanno portato a nessun grande risultato concreto.  In ogni caso, parlare di partecipazione dei popoli attraverso questi meccanismi di decisione inter-governativo è a dir poco arduo.


 

Il vero correttivo democratico:  i valori fondamentali delle Nazioni Unite

Di fronte a questi meccanismi così imperfetti di partecipazione inter-governativa, ci si può  chiedere come si possa ricondurre il funzionamento di questi organismi a strumenti di partecipazione democratica dei loro popoli.  Nonostante uno scetticismo rispetto a questo quesito possa apparire dapprima giustificato, c’è una dimensione che spesso sfugge all’osservatore superficiale, che rende questi organismi diversi da quanto una visione scettica del mondo voglia proiettare: tutti questi organismi si fanno portatori di valori fondamentali di giustizia, di equità, di difesa dei più deboli, e di tutela dei diritti umani e di quelli delle minoranze, di protezione dell’ambiente e di crescita di tutti i popoli del mondo senza distinzione, che – volenti o nolenti— determinano i loro criteri di funzionamento.

Parlando con molti colleghi delle Nazioni Unite, spesso frustrati da anni di inadeguatezza dei propri interventi, ho spesso riscontrato un comun denominatore nelle motivazioni di fondo che li portavano a lavorare in questo ambito: piu ché ambizioni economiche, che pur esistono (anche se il valore reale delle remunerazioni dei dipendenti di queste organizzazioni è fortemente diminuito nel lungo periodo rispetto al settore privato internazionale), la motivazione di fondo rimane la soddisfazione di lavorare per istituzioni che hanno radici in valori fondamentali dello sviluppo umano.

In altre parole, non è attraverso gli aspetti democratici” dei meccanismi inter-governativi che gli interessi dei “popoli” della terra entrano nel funzionamento dell’ONU e delle sue agenzie ma attraverso l’attenzione costante a certi valori di fondo, che sono contenuti nel testo della Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale per I Diritti Umani, e nelle centinaia di dichiarazioni adottate nel corso di questi ultimi sessanta e passa anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, più  di recente con la Dichiarazione del Millennio e l’identificazione dei rispettivi “Obiettivi di Sviluppo del Millennio” (gli MDGs, secondo la formula inglese).

Si potrebbe dire: questi valori sono ben poca cosa. Possono essere disattesi in qualsiasi momento nella pratica applicazione dei programmi di cooperazione internazionale.  Eppure, se mi si lascia passare il confronto, è come per l’Italia fare riferimento ai principî della Costituzione.  Che ci sia una disoccupazione giovanile spaventosa non significa rinunciare al principio fondamentlale che l’Italia sia una repubblica fondata sul lavoro.  Analogamente, che ci sia una grande diversità tra i livelli di sviluppo economico e sociale nel mondo non significa che le Nazioni Unite non continuino a perseguire obiettivi di progresso sociale, di miglioramento delle condizioni di vita e di giustizia in tutte le parti del mondo.


 

Le contraddizioni quotidiane: dai principî alle realtà operative

Tutti coloro che lavorano negli organismi delle Nazioni Unite debbono affrontare quotidianamente la contraddizione evidente tra la “dittatura” dei governi, che ne regolano il funzionamento e  ne determinano le capacità tecniche, organizzative e finanziarie, e i valori di fondo che ne hanno ispirato la costituzione e ne ispirano ancora il funzionamento.  La “dittatura” dei governi sfugge a chi a volte critica l’ONU per inefficacia o incoerenza, come se non fossero decisioni inter-governative che determinano le “leggi” dell’ONU (cioè le “risoluzioni” dei suoi organi).  RIcordiamo i disastri del Rwanda: tutti accusarono l’ONU.  Ma furono i governi che decisero di non intervenire per impedire quell’eccidio così tragico. Perché la gente non se la prende con i governi che prendono quelle decisioni e preferiscono incolpare il più fragile organismo dell’ONU?  L’ONU in questo è come un bicchiere: può essere pieno o vuoto.  Il contenuto lo decidono i governi. Quegli stessi governi che accusano l’ONU di inefficienza o di lentezza, sono spesso quelli che non permettono le riforme, che non danno i mezzi per accelerare gli interventi, che prendono decisioni che complicano il funzionamento operativo.

Spesso si sente dire che le Nazioni Unite sono troppo buracratiche, che producono troppa carta in forma di rapporti scritti. Eppure gli organi inter-governativi, ove siedono i rappresentanti dei governi, spesso non fanno nulla per ridurre il numero di questi rapporti e ne chiedono continuamente di nuovi.

A questa “dittatura” dei governi, le organizzazioni delle Nazioni Unite frappongono strutture gestionali, decise di nuovo sempre dai governi, di natura assolutamente gerarchica, che non favoriscono la presa di responsabilità e il dialogo, questa volta sì democratic o(nel senso partecipativo dei popoli), con le masse interessate, quelle dei cosiddetti “stakeholders” o direttamentecoinvolti.

Naturalmente questo giudizio può sembrare impietoso.  Quei valori fondamentali che regolano le Nazioni Unite e che motivano gran parte del suo personale si scontrano continuamente con queste strutture gerarchiche e questi condizionamenti inter-governativi, in un conflitto ove vincitore e vinto si alternano.  È da questo alternarsi di condizioni che vediamo il succedersi degli avvenimenti nel mondo, ove atti profondamenti umani e di attenzione estrema alle condizioni dei più bisognosi si alternano con le inefficienze burocratiche o le indifferenze delle strutture dell’ONU o delle sue agenzie.

È una lotta continua, in cui gli stessi governi partecipano spesso in modo contradditorio: spingendo per un miglioramento di questo ruolo di servizio dell’ONU e delle sue organizzazioni nei confronti dell’uomo, e ponendo al tempo stesso ostacoli per una sua realizzazione.  Per esempio, la partecipazione delle comunità di base o dei loro rappresentanti nel lavoro delle Nazionoi Unite o dei suoi bracci operativi è spesso incoraggiata, ma altrettanto spesso vanificata da atteggiamenti formali che ne impediscono la realizzazione.

Democrazia nella gestione dei programmi di cooperazione degli organismi dell’ONU è un concetto che sembra non avere riscontri pratici: il sistema delle Nazioni Unite segue un meccanismo di pianificazione dall’alto e non di gestione partecipata dal basso.  Eppure il dialogo con la base è predicato come un valore fondamentale, spesso sperimentato in alcune azioni condotte a livello periferico.

I popoli delle Nazioni Unite stanno aspettando di entrare nella gestione delle sue strutture, ma per ora ciò avviene solo attraverso il filtro dei loro governi e dei loro rappresentanti: soltanto i valori fondamentali delle Nazioni Unite sembrano fare breccia in questo muro inter-governativo, portando continuamente l’attenzione delle agenzie dell’ONU verso la condizione dell’uomo e imponendola come criterio operativo universale a tutti i loro programmi. Si tratta di una sfida impari, ma intensa e quotidiana.

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